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Attualità e Società
08 Ottobre 2013
La Palestina vicina (seconda parte). Nel limbo della Seam Zone. Intervista a Anna Pasotti.
La condizione di migliaia di Palestinesi imprigionati tra il Muro e un confine. I frutti (e le verdure) dell'occupazione israeliana e le responsabilità della comunità internazionale.
Gli appunti di un viaggio che continua in Palestina proseguono con la seconda puntata dedicata all’intervista a Anna Pasotti, che ha vissuto nei Territori Occupati Palestinesi dall’inizio del 2012 a metà del 2013, lavorando per organizzazioni internazionali ed Ong locali. Uno dei progetti che ha seguito è stato quello dell’accesso ai beni alimentari nella Seam Zone, una parte della Cisgiordania occupata in cui le condizioni dei palestinesi sono particolarmente dure e misconosciute.
Anche con questa testimonianza vogliamo proporre elementi a sostegno della campagna BDS, Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni, nei confronti di Israele, nella convinzione che può rappresentare un modo concreto a disposizione della comunità internazionale per reagire davanti alle ingiustizie e alle sofferenze imposte al popolo palestinese dall’occupazione militare israeliana e contribuire alla costruzione di una pace giusta tra israeliani e palestinesi. Al centro della BDS, come è noto, c’è la denuncia della sottrazione delle terre, dell’acqua, delle risorse naturali palestinesi attraverso l’incessante processo di costruzione di colonie da parte israeliana, mai cessato, neppure di fronte a ipotesi di accordi di pace. La BDS richiama le scelte di pressione internazionale che contribuirono alla messa in crisi e al crollo del regime di apartheid in Sud Africa. Tra gli elementi su cui si fonda questa correlazione ci sono, tra altri, i risultati di un processo decennale di occupazione militare israeliana che ha trasformato il territorio palestinese in un reticolo incredibile di confini, di separazioni, di zonizzazioni, dove i palestinesi vivono in enclave circondate e isolate. Tutto questo risulta molto concreto osservando una mappa della Cisgiordania e del tutto evidente e doloroso se si visita quella terra. La Seam Zone è parte di questa politica dell’occupazione, in una delle sue forme più occulte e odiose.
Chiediamo aiuto per capire cos’è la Seam Zone ad Anna Pasotti, che ha seguito direttamente un progetto sull’accesso ai beni alimentari al suo interno.
Puoi spiegarci che cos’è, quando nasce la Seam Zone?
La Seam Zone (letteralmente “zona orlo”) è parte della Cisgiordania e quindi dei Territori Palestinesi Occupati, ma divisa da essa dal Muro di separazione che Israele ha iniziato a costruire nel 2002. La così chiamata Linea Verde è la linea riconosciuta internazionalmente che separa Israele dai Territori Occupati, la Linea Verde dovrebbe quindi permettere la costituzione di due stati separati ed autonomi. Quando, durante la Seconda Intifada, Israele iniziò a costruire il Muro di separazione non rispettò questo confine e costruì parte di esso all’interno della Cisgiordania. Così facendo si assicurava il controllo militare di aree geograficamente strategiche o di suo interesse politico od economico e dichiarava unilateralmente ad alta voce il non riconoscimento di una soluzione del conflitto che comprendesse due stati. Israele diede così vita a delle aree, chiamate Seam Zone, che sono tecnicamente parte della Cisgiordania ma sono fisicamente separate da essa.
Chi vive nelle Seam Zone?
Oltre agli israeliani, che sono coloni, nelle Seam Zone vivono i palestinesi, è difficile dire con esattezza quanti, a causa della difficoltà nel ricevere permessi per poter accedere alla Seam Zone. OCHA (United Nations Organization for the Coordination of Humanitarian Affairs) e UNRWA (United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East) stimano che ci siano 7.500 i Palestinesi che vivono nella Seam Zone, la maggior parte dei quali (circa 6.000) vive in una “tasca” a nord della Cisgiordania nell’area di Jenin. Israele però non ha ancora concluso la costruzione del muro, prevista per il 2015: quando ciò avverrà, una gran parte dell’area a sud di Betlemme verrà separata dal resto della Cisgiordania creando una nuova “tasca” della Seam Zone. Questa contiene al momento 23.000 palestinesi. Se ciò accadesse, saranno 30.000 i palestinesi a vivere isolati dal resto della Cisgiordania, in aree militari, separati da servizi e centri sociali e lavorativi.
Da cosa dipende la difficoltà di accesso alle Seam Zone? Sono zone militari di fatto?
Sono state dichiarate zone militari per motivi di “sicurezza”, di conseguenza i palestinesi che ci vivono devono chiedere un permesso speciale e temporaneo per vivere nelle loro case, vivendo sotto legge marziale (come la maggior parte dei palestinesi nei Territori Occupati). In quanto zona militare chiunque non vi risieda deve chiedere un permesso all’esercito israeliano per potervi accedere, permessi che è praticamente impossibile ottenere, e nessun genere di infrastruttura può essere costruito senza il permesso delle autorità israeliane.
I palestinesi che vivono nella Seam Zone, sono in possesso di una carta di identità palestinese verde (a significare che non possono uscire dalla Cisgiordania e non hanno diritto ad entrare in territorio israeliano a meno che non facciano domanda per permessi speciali temporanei, anche questi praticamente impossibili da ottenere) e non possono oltrepassare il confine tra i Territori Occupati ed Israele.
Chiusi tra un muro ed un confine, sottoposti alla legge marziale, la vita dei palestinesi in Seam Zone è quella degli ultimi tra gli ultimi. E’ chiaro che la vita di tutti i palestinesi che vivono in Cisgiordania è dettata da restrizioni di movimento e limitazioni dei loro diritti, è anche chiaro però, una volta che si mette piede in una “tasca” della Seam Zone che qui la situazione è pessima. Non appena si entra in una qualsiasi di queste aree si respira la totale assenza di speranza accompagnata dalla miseria più totale. Quello che si vede è un insieme strano di reazioni: di sicuro nessuno si arrende, di sicuro si vede un’enorme forza. “Non ce ne andiamo,” ti dicono gli abitanti della Seam Zone, le continue restrizioni non li spaventano, finché possono restare, resteranno nelle loro case. Il fatto è che per poter continuare questa loro lotta nella quale sono completamente abbandonati dal resto dei palestinesi, come dall’autorità palestinese, vivono in miseria, vivono di stenti e di continue umiliazioni. Paradossalmente si sono rassegnati al fatto che l’unico tipo di resistenza che possono fare è quella di restare fisicamente nelle loro case, ma questa è una resistenza passiva. Loro sanno che comunque le cose non potranno che peggiorare e quindi rassegnati attendono, vengono umiliati, si ammalano e non escono più di casa.
In più, siccome è praticamente impossibile per organizzazioni internazionali ed Ong ottenere il permesso di entrare nella Seam Zone, gli abitanti di quest’area devono passare i check-point anche per poter arrivare ad aiuti umanitari. Questo espone anche l’assistenza umanitaria, non che la loro vita giornaliera, a forti umiliazioni e rischi insieme ad insulti alla loro dignità creando un forte legame tra aiuti e servizi primari, e stress e paura.
Come se non bastasse, le regolazioni sull’ingresso ai check-point non riguardano solo le persone non residenti ma anche prodotti commerciali ed alimentari. Pochi sono i veicoli che hanno avuto il permesso di registrarsi quando venne costruito il muro, più di dieci anni fa, e questi sono gli unici che hanno il diritto di passare per i check-point e di conseguenza trasportare prodotti all’interno della Seam Zone. Questi veicoli, nelle poche “tasche” dove il passaggio di veicoli ai check-point è permesso, trasportano prodotti per distribuirli nei pochi negozi presenti. Ai check-point i prodotti vengono scaricati dai mezzi e controllati così anche i mezzi e gli autisti, i quali attendono a volte ore per poter ripartire e compiere un viaggio di qualche chilometro. Non tutti i prodotti alimentari possono passare attraverso i check-point e le quantità permesse sono limitate. Che i prodotti vengano portati via mezzi di trasporto o a piedi, e con scopo commerciale o di consumo personale, comunque le limitazioni sono alte aumentando di conseguenza il numero di viaggi che si deve fare verso l’interno della Cisgiordania per poter avere accesso a prodotti alimentari ed aumentando i rischi, lo stress e le umiliazioni per chi li deve trasportare. A volte il controllo dei beni alimentari è talmente lungo che questi, a causa di pioggia o temperature molto elevate, ne sono danneggiati. Altre volte i soldati o l’uso di cani danneggiano il cibo che non può venire consumato. In più essendo i regolamenti sulle quantità ed i tipi di cibo non scritti capita che ad alcuni abitanti della Seam Zone venga chiesto di lasciare del cibo ai check-point. Spesso, per evitare che ciò accada gli abitanti scelgono di fare molti viaggi e trasportare piccole quantità di cibo, oppure semplicemente di mangiare meno. Donne ed anziani tendono ad avere paura nel passare i check-point e quindi evitano alcuni dei servizi primari che si trovano al di là del muro; come i bambini che hanno paura di andare a scuola. Non dimenticherò mai la donna che mi raccontò del soldato che, senza nessun genere di preavviso, le picchiettò sulla pancia per controllare che fosse vera per poi chiedere a una soldatessa donna di scortare la donna di lato per spogliarla e controllare non nascondesse nulla.
Mi chiedi com’è la vita degli abitanti della Seam Zone… direi che qui i palestinesi hanno imparato a sopravvivere, ma la loro non si può di sicuro chiamare vita. Sempre più spesso senza lavoro, con problemi di malnutrizione (verdure, frutta, latticini e carni non possono oltrepassare i check-point per entrare nella Seam Zone nella maggior parte dei casi), soli ed abbandonati non possono certo definire vita il dover passare attraverso l’umiliazione di un check-point per raggiungere o per permettere a chi si ama di raggiungere i servizi necessari alla sopravvivenza, la salute, l’educazione ed il lavoro. In una casa che visitai a Nabi Samuel una donna, vedova, vive con i 3 figli di cui uno disabile nella continua ricerca di piccoli lavoretti per poter mantenere sé stessa e loro. Questa donna non ha nemmeno un secondo libero per prendersi cura di se stessa o di casa sua. La casa, circondata da cani randagi, praticamente cade a pezzi, nel salotto all’interno il figlio disabile è sdraiato a terra: aiuti specializzati non possono accedere nella Seam Zone e siccome il check-point che porta al resto della Cisgiordania in questa “tasca” si può passare solamente a piedi, la donna non riesce a portare il figlio ormai grande in dei centri specializzati o a scuola. I divani vecchi e laceri sono coperti di escrementi di animali e l’aria è piena di mosche che si attaccano sul viso di chiunque sa in casa: i vestiti sono laceri e la puzza è insostenibile. Se questa donna avesse accesso ad AlJib, il centro più vicino al di là del muro, ed al resto della Cisgiordania avrebbe meno difficoltà a trovare lavoro e magari qualche parente potrebbe supportarla, allo stesso tempo se vi fossero servizi in Nabi Samwil (negozi di alimentari, scuole medie, ospedali, scuole per disabili) riuscirebbe a prendersi cura della sua famiglia in maniera molto più efficiente. Onestamente, non ho mai capito come faccia ad alzarsi la mattina.
Queste condizioni di vita inaccettabili rendono la Seam Zone esplosiva…
In generale, le Seam Zone sono zone di alta tensione. Prima di tutto sono dichiarate zone militari dove gli abitanti hanno pochissimi diritti e molte restrizioni. Questo, insieme alla costruzione del muro ed alle restrizioni dei check-point aiutati dall’assenza di regolamenti scritti, rendono le Seam Zone aree di facili tensioni, come del resto tutte la aree attorno al muro o attorno a colonie. L’uccisione di due ragazzi al campo rifugiati di Qalandiya, all’interno della Cisgiordania ma a ridosso del Muro di separazione, alla fine di agosto non è che l’ultimo di una serie infinita di episodi che riguardano quasi sempre arresti senza processi o capi d’accusa, soprusi da parte di militari o coloni e l’esasperazione di persone che si sentono di vivere in trappola. Quando questo succede si incontrano nella maggior parte dei casi, un esercito organizzato contro gruppi di civili armati di sassi e stanchezza portando sempre a conclusioni negative per i più deboli.
Spostandoci ora dalla Palestina rurale, vorrei chiederti di focalizzarci su Gerusalemme. Camminando per la città si può sentire netta la sensazione di attraversare continuamente confini, spesso invisibili allo sguardo unicamente turistico. Gerusalemme è un po’ come la Seam Zone?
Gerusalemme Est per definizione rientra nella categorie della Seam Zone, Gerusalemme Est fa parte della Cisgiordania ma ne è separata dal muro, che quindi la intrappola in una municipalità confusa. La Gerusalemme israeliana si considera una. Gli abitanti di tutta Gerusalemme devono pagare le tasse e le bollette alla municipalità della città, che è israeliana, allo stesso tempo però i servizi non sono omogenei come le infrastrutture, la manutenzione delle strade e lo smaltimento della pattumiera. Quando si parla di spendere soldi, e di fornire servizi Israele si ricorda dell’esistenza della Linea Verde. Detto questo, Gerusalemme Est non è considerabile Seam Zone. Gli abitanti di quest’aerea hanno una carta d’identità specifica di Gerusalemme che gli dà il permesso di risiedere in Gerusalemme Est (permesso che va rinnovato ogni 4-5 anni) e che gli dà il permesso di muoversi in tutto lo stato di Israele e in tutta la Cisgiordania. Però non possono risiedere in altro luogo se non Gerusalemme Est.
Quindi la Linea Verde per le autorità israeliane vale solo in certe circostanze?
Esattamente, la Linea Verde viene usata dallo stato di Israele con due pesi e due misure. Questo vale sia per la Cisgiordania che per Gerusalemme est. Nella maggior parte dei casi esso non la riconosce, riconoscerla significa abbandonare l’idea del grande stato di Israele e significa non usufruire di tutte le risorse che vi sono al di là della Linea Verde. Quando però si tratta di garantire gli stessi diritti di cittadini israeliani ai palestinesi che vivono dal lato israeliano del muro ma all’interno della Seam Zone Israele usa l’esistenza della Linea Verde per non doversi occupare di queste persone che lascia in mano ad un’autorità palestinese che ne è fisicamente separata.
La condizione dei Palestinesi nella Seam Zone, all’orlo dell’emergenza umanitaria, è l’esempio più drammatico delle conseguenze dell’occupazione israeliana. Ma la sottrazione delle terre fertili e delle risorse idriche riguarda anche il resto della Cisgiordania. Ci puoi illustrare i molti modi in cui questo avviene? Cosa c’è dietro, spesso, prodotti ortofrutticoli Made in Israel?
Il problema della sicurezza alimentare rimane un problema abbastanza forte anche nel resto della Cisgiordania: nel 2011 il 22% dei palestinesi in Cisgiordania viveva in una situazione di insicurezza alimentare. Questo è parzialmente dovuto dal fatto che la maggior parte dei terreni agricoli palestinesi sono stati o confiscati o necessitano dei permessi per potervi entrare. Per chi ancora ne è in possesso, coltivare la propria terra è estremamente difficile. Nei casi in cui l’accesso alla terra è regolato da un cancello militare o da restrizioni da parte dell’esercito israeliano, spesso solo il titolare dell’appezzamento di terra ha il permesso di entrarvi a lavorarla: peccato che nella maggior parte dei casi questa persona è molto anziana e non riesce a lavorare la terra senza l’aiuto del resto della sua famiglia, soprattutto in momenti di raccolta. Per di più essere in possesso di documenti che attestano di possedere un terreno non significa che vi si possa andare sempre. Spesso chi possiede il terreno può entrarvi solo nei periodi di raccolta: peccato che se non vi ha avuto accesso per tutto l’anno, avrà poco da raccogliere.
Per avere un immagine più chiara, basta pensare che attorno a 550.000 coloni posseggono il 48% della terra della Cisgiordania e di Gerusalemme East e che la maggior parte di questi erano un tempo terreni agricoli palestinesi. Per di più, nel rimanente e frammentato 52% devono riuscire a vivere più di 2,6 milioni di palestinesi, i quali hanno accesso a solo il 20% della falde acquifere in Cisgiordania controllate da Israele. Di conseguenza i Palestinesi hanno accesso ad attorno 70 litri di acqua al giorno per persona, mentre coloni ed israeliani hanno accesso giornalmente a 300 litri di acqua. Lo WHO (World Health Organization) dichiara che il minimo per persona è di 100 litri al giorno.
Diventa chiaro quindi che anche nei casi in cui, invece, il terreno di una famiglia palestinese non sia stato confiscato, rimane comunque difficile coltivarlo. Questo non solo per assenza di acqua: spesso le colonie vicine o i nuovi avamposti si attaccano o danneggiano le tubature dei villaggi rubando la loro acqua o inquinano le cisterne del villaggio palestinese con materiale inquinante o escrementi di animali o umani. Capita anche, e non raramente, che coloni entrino nei campi palestinesi e rovinino il raccolto e le piante.
Tutto ciò avviene all’interno di un sistema militare in cui i palestinesi hanno meno diritti legali dei coloni israeliani e non possono sperare di vincere cause contro di essi. Vivere all’interno di un sistema militare significa inoltre per i palestinesi della Cisgiordania avere pressoché nessun diritto, l’esercito israeliano può arrestare a piacimento ogni palestinese (di qualsiasi età, pure minori) senza bisogno di un capo di accusa, senza informare i familiari della sorte dell’arrestato e senza processo. Lo stesso riguarda demolizioni di case o espropri di terreni che avvengono con pochissimo preavviso senza che i proprietari possano fare nulla: capita anche che gli abitanti di una casa vengano forzati a demolirla davanti agli occhi dei soldati.
Tornando alla questione della sicurezza alimentare e dell’agricoltura, diventa necessario parlare dei prodotti agricoli delle colonie israeliane, questi provengono principalmente dalla Valle del Giordano. Un totale di 58.000 palestinesi vivono nel 5% di quest’area il resto è a diretto od indiretto accesso dei coloni. Le 31 colonie ed i sette avamposti della Valle del Giordano sono colonie a funzione prevalentemente agricola: ciò che rende questi numeri ancora più scioccanti è che i prodotti di queste colonie non hanno lo scopo di competere sul mercato con i prodotti israeliani e non servono per poter supplire il fabbisogno alimentare degli abitanti di Israele, ma sono state create con lo scopo di esportazione. Infatti il 95% dei prodotti agricoli provenienti da colonie della Valle del Giordano vengono poi venduti nell’Unione Europea ed una piccola parte negli Stati Uniti. Questi prodotti, oltre ad essere coltivati in Cisgiordania contro accordi internazionali vengono poi venduti sui nostri mercati come prodotti Made in Israel quando sono in realtà prodotti in colonie illegali. Penso che questo quadro renda quindi chiaro il ruolo che noi consumatori e cittadini europei giochiamo all’interno di questo conflitto. Quando compriamo un prodotto agricolo israeliano stiamo in realtà dando supporto ad in ingranaggio illegale che coltivando all’interno della Cisgiordania si appropria di terreni ed acqua di palestinesi rendendo praticamente impossibile che essi possano coltivare i propri terreni, riducendo i profitti, aumentando il livello di povertà, insicurezza alimentare e di conseguenza di malnutrizione e malattie. Tutto ciò all’interno di un sistema militare nel quale i palestinesi non godono di diritti e si ritrovano a dover lottare giornalmente per accedere ad i servizi più basilari come scuole ed ospedali: costantemente umiliati, costantemente oppressi.
Roberta Padovano
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